Definisco così il frutto di un’esperienza infantile nella quale i nostri bisogni di amore, di riconoscimento, di rispetto sono stati significativamente disattesi da chi ci ha messo al mondo con il compito di iniziarci e avviarci alla vita.

Quando i primi rapporti e  scambi col mondo sono avvenuti  in simili condizioni di precarietà-carenza- conflittualità-traumaticità, è stato giocoforza, per la nostra sopravvivenza psichica e umana, e per la protezione e conservazione di quell’esigenza di amore e di salute che ritengo innata, si ricorre a quelle modalità di ricezione e risposta che la teorizzazione psicologica e psicoanalitica definisce  meccanismi di difesa.

Questi “meccanismi”, così preziosi ed efficaci nella fase della dipendenza e dell’esposizione diretta ai fattori traumatici, possono rivelarsi, nelle successive fasi della vita adulta, un’ingombrante zavorra, capace di ostacolare, fino ad impedire, il raggiungimento di quella responsabilità di sé e di quella libertà interiore che sono i requisiti di una persona compiutamente realizzata.

Diversamente dal sapere tecnico-scientifico che vede nel sintomo  una condizione incoerente e malata da eliminare, nelle professioni di cura basate su una concezione  esistenziale e relazionale quel doloroso sconosciuto che è il sintomo è visto anzitutto come un segno prezioso che vuol rendere udibili alla sordità del paziente i messaggi che corpo e psiche gli mandano, premessa indispensabile affinché la persona possa ricercare l’originalità della propria individuazione.

Una concezione esistenziale piuttosto che medico-scientifica del sintomo: la comunicazione simbolica di un tentativo maladattivo di salute maladattivo  che nasce dal conflitto tra i desideri del soggetto e i desideri degli altri (rinuncio ai miei bisogni per proteggerti dal tuo tormento ansioso… accetto un accudimento infantilizzante per corrispondere al tuo bisogno di controllo…  accetto il tuo investimento narcisitico, privo di investimento oggettuale per proteggere il tuo scarso narcisismo buono) il quindi come paradossale atto d’amore che non si colloca pertanto non nell’alterazione organica, ma nel conflitto fra natura e cultura, fra il naturale bisogno di un amore sano e la culturale esperienza di un amore malato, conflitto che in misura diversa ha caratterizzato la storia di figlio di ciascuno di noi

QUI NASCE ALLORA UNA DOMANDA

Che cosa differenzia le categorie dei pazienti e dei terapeuti? Nient’altro che la posizione occupata, il ruolo ricoperto.

Afflitti da una ferita primaria e desiderosi di curarla, i primi chiedono aiuto a un terapeuta, i secondi si propongono come aiutanti   a patto però di una personale autorizzazione che non può che venire dal cammino verso la  cicatrizzazione della propria ferita,  verso un esaurirsi del suo sanguinamento nel raggiungimento di quella responsabilità di sé e di quella libertà interiore che sono i requisiti di una persona sufficientemente realizzata.

Per motivi difficili da capire (che anche con l’aiuto delle poesie di Gianfranco proveremo a conoscere) non siamo tutti uguali di fronte alle difficoltà della vita. Come Freud ci ha insegnato alcuni individui riescono a reagire all’esperienza del dolore fisico e psichico, mentre altri, anche meno toccati, sembrano grattare le loro ferite. Cosa fa la differenza…a quale fonte di ottimismo possono attingere i primi? Di sicuro tutto ciò relativizza il concetto di trauma.

MA PRIMA DI PROVARE A RISPONDERE A QUESTA DOMANDA TORNIAMO ALLA FERITA DEL TERAPEUTA

Solo il guaritore ferito può guarire” Jung

Carl Gustav Jung diceva che il “terapeuta può guarire gli altri nella misura in cui è ferito egli stesso”. L’archetipo del guaritore ferito era quello di Chirone centauro e personaggio della mitologia greca, considerato il padre della medicina.

Chirone è figlio di Crono e di una Ninfa, ed è un centauro anche se, a differenza dei suoi simili, è gentile e benevolo e sapiente.
Rifiutato dai suoi genitori (primo trauma), cresciuto da Apollo, Chirone non solo è una creatura generosa e delicata, ma è anche colto, e conosce l’arte medica; è talmente bravo che questa diviene suo mestiere ed è tutore addirittura di alcuni dei dell’Olimpo.
Solo che, a un certo punto, una freccia lo ferisce gravemente, una ferita che non guarirà mai. Il dolore è enorme, tanto che Chirone decide di rinunciare alla propria immortalità piuttosto che convivere con questa pena straziante.
Nell’inutile ricerca di una guarigione per se stesso, Chirone diviene esperto di erbe medicinali, conosce la sofferenza e fa sì che la sua lacerazione impossibile da risanare possa servirgli per aiutare gli altri.
Mette a disposizione ciò che ha imparato a servizio di chi è attorno, divenendo appunto il “guaritore ferito”.

Proprio attraverso la sofferenza che Chirone impara l’arte della cura e a tenere sempre presente la propria ferita, che è simbolicamente lo spazio attraverso cui il dolore e la sofferenza possono entrare in lui.

Come Chirone, così il terapeuta può comprendere la sofferenza dell’altro solo riconoscendo e integrando la propria sofferenza, non come debolezza o fragilità, ma come forza e strumento per poter lasciare entrare ed entrare in contatto con l’altro.

« Si può capire che un altro si senta debole, fragile, diverso, tremante di sgomento, solo lasciando affiorare il ricordo di tutte le volte – o di almeno una volta – nelle quali noi stessi ci siamo sentiti deboli, fragili, diversi, tremanti di sgomento». (Galanti M. A.)

E’ così che la ferita diviene feritoia, pertugio per un incontro autentico con l’altro generando una postura esistenziale del tutto diversa e lontana da quella positivista della psicometro diagnosta

MENTRE PER LO PSICOMETRO IL SINTOMO COINCIDE CON LA DIAGNOSI, PER IL TERAPEUTA IL SINTOMO E’ ANZITUTTO UN TENTATIVO DI SALUTE.

lo psicometro descrive i sintomi, il terapeuta “guaritore ferito” crea immagini, metafore e connessioni mentali grazie ad una atteggiamento esistenziale capace di generare un autentico linguaggio evocativo… attitudine che viene prima della capacità tecnica

UNA POSTURA ESISTENZIALE CHE A BEN VEDERE E’ ANCHE QUELLA DELL’ARTISTA

Tutta l’arte in fondo è agire una sublimazione che permetta di traghettare la cupezza  del dolore in energia creatrice, dove anche la poesia diviene  un esorcismo per dar voce ad  un desiderio di armonia. Gianfranco Murtinu scrive le sue poesie per dare un futuro al passato potendo così riconosce sé stesso nei suoi versi, perché è attraverso la conoscenza di noi stessi che individuiamo e comprendiamo i meccanismi delle nostre paure: ciò a patto che il passato non sia negato nel presente, pena il non vivere.

É infatti dalla sofferenza e dalle perturbazioni emotive ed affettive che nasce il linguaggio non ordinario, non esplicito, il linguaggio evocativo. Come in tutti i linguaggi evocativi anche la voce interiore da cui nasce la  poesia Di Gianfranco Murtinu racconta di antichi sgomenti , “momenti d’impervia solitudine” (Risveglio), di esperienze perturbanti in un insoddisfatto bisogno di essere accettati, di “lontane peripezie” (Amico) che si riaffacciano, di traumi e disagi che divengono “paura di morire dentro” (Palcoscenico).

PER IL TERAPEUTA

“Solo chi ha sofferto può farsi toccare dalla sofferenza altrui. Chi ha sofferto molto ma non troppo. perché chi ha sofferto troppo è come cicatrizzato, non può sentire più niente. E chi ha sofferto troppo poco nemmeno. Chi ha sofferto molto, ma non troppo, lui si che può aiutare qualcuno nella sua sofferenza”  (Giorgio Maria Ferlini….supervisione del 1994….che casualmente è anche l’anno in cui ho incontrato per la prima volta Gianfranco

Cosa intendeva  Ferlini nel dire “chi ha sofferto molto ma non troppo”

Penso lo spieghino bene le parole dello psicanalista Eli Weisstub:

“La nostra personale sofferenza psichica è senza dubbio determinante per farci comprendere e relazionare con il dolore degli altri, però non è sufficiente per guarire una psiche ferita. Non è solo attraverso le proprie ferite che un individuo diventa sensibile alla sofferenza degli altri, questa sensibilità nasce soprattutto da una fonte interna di forza che abilita a dare e ricevere compassione per e dagli altri. Io attribuisco questa  mia capacità all’amore e alla cura che ho ricevuto dai miei genitori, specialmente da mia madre. E sono questa forza interiore e questo desiderio di aiutare gli altri gli elementi che fanno il buon terapeuta…La capacità di soffrire e nello stesso tempo di essere forti abbastanza per continuare a vivere e ad amare sono elementi che riceviamo nell’infanzia dalle cure parentali, o, se siamo piuttosto fortunati, dal processo psicoterapeutico”.

Per lo psicoanalista della Società di psicologia analitica israeliana questa vitale forza interiore origina quindi  dai nostri attaccamenti fondamentali.

Penso anch’io che si tratti di quella energia che prendiamo dagli oggetti buoni, per quanto parziali,  che abbiamo interiorizzato nella nostra formazione originaria. Perché se è vero che all’origine della nostra scelta professionale è frequente esservi un bisogno di controllo, di difesa, di presa di distanza dai disagi, dalle carenze, dai traumi che possono aver caratterizzato le nostre storie di figli, piuttosto che un bisogno di proiettare all’esterno una nostra necessità di cura, o il bisogno di agire più o meno profonde istanze riparatrici….se tutto questo, pur in  modi e quantità diverse, può essere vero, deve però essere altrettanto vero che oltre ad una particolare sensibilità nel percepire e stare con il dolore degli altri qualcosa di nutriente e trofico dobbiamo pur aver trapiantato in noi dalle figure più significative che hanno accompagnato la nostra crescita e formazione.

Una esperienza vitalizzante che, in quanto tale,  può  rinnovarsi continuamente nelle nostre attuali esperienze di buon attaccamento.

LO STESSO VALE ANCHE PER L’ARTISTA, IL POETA E ANCHE QUI LE POESIE DI GIANFRANCO NE SONO UNA EFFICACE TESTIMONIANZA

Ecco allora allora le immagini che vengono dall’inconsci e dal passato quali:  

 – “ricordo di un’infanzia mai dimenticata, ma rivissuta nel presente” (Fantasia),

-“ l’immagine di mia madre, una madre coraggiosa” (Silenzi), –

– “l’inopinabile virtù di un amore senza fine” (Oltre)

“la dolcezza dei tanti miei ricordi” (Ricordi)

Tutte memorie che permettono un esorcismo che diviene autoterapia nella poesia.

Esperienze vitalizzanti mai dimenticate e che Gianfranco Murtinu ha tenacemente ricercato nelle successive esperienze di buon attaccamento, consapevole della nostra impotenza rispetto a  ciò che di noi si è fatto, ma altrettanto conscio del potere che abbiamo nel cambiare ciò che è stato fatto di noi, l’unico modo per divenire responsabili del nostro destino.

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