Vedere con gli occhi di un altro, ascoltare con le orecchie di un altro, e sentire con il cuore di un altro.
(Alfred Adler)
Questa settimana nella rubrica Pillole di Psicologia parliamo di empatia. Abbiamo già accennato in precedenti articoli di questa abilità caratteristica dell’uomo, ora le vedremo in maniera più approfondita.
Quando si parla di empatia ci si riferisce alla capacità di porsi nella situazione di un’altra persona, di comprendere i processi psichici dell’altro, quindi è un’abilità sociale fondamentale per l’essere umano ed è anche uno strumento per una comunicazione interpersonale efficace. L’empatia ci fa stare più vicini all’altro e modulare i nostri comportamenti in base alle sue reazioni, grazie all’empatia possiamo darci un freno quando ci comportiamo male e procuriamo del dolore all’altro. L’empatia è coinvolta in tutti gli ambiti in cui possiamo entrare in relazione con gli altri.
Secondo Hoffman si può definire l’empatia attraverso due modalità:
- in termini fenomenologici ovvero descrivendo un fenomeno nella sua manifestazione, in questo caso si tratta di una risposta affettiva più appropriata alla situazione di un altro che alla propria
- in termini funzionali cioè spiegando i processi alla base della reazioni empatiche, l’empatia è la scintilla che fa scaturire la preoccupazione umana per gli altri.
Sentiamo molto spesso parlare di empatia, tuttavia è necessario differenziarla da altri processi con i quali viene spesso confusa, ad esempio la simpatia o la gradevolezza. L’empatia non è semplice simpatia, poiché posso provare simpatia senza aver stabilito una connessione emotiva con i vissuti dell’altro, inoltre la simpatia non modula i nostri comportamenti né crea connessione.
Quando siamo empatici assumiamo la prospettiva dell’altro, non è quindi semplice intuizione poiché nell’intuito non sono coinvolte dei meccanismi (le funzioni di controllo esecutivo) che invece si attivano con i processi empatici. L’empatia inoltre non è neanche compassione, questa implica passività e contrariamente a quanto si possa credere nell’empatia è assente poiché nell’esercizio dell’empatia è richiesto un atteggiamento attivo. Possiamo sinteticamente dire che l’empatia è come un “contagio emotivo” grazie al quale si è in grado di comprendere e poi di rispondere in maniera adeguata alle sue esigenze.
Alla base dell’empatia troviamo la relazione madre – bambino, un buon attaccamento, dove il caregiver ha riconosciuto ed è stato in grado di rispondere in maniera adeguata e completa ai bisogni del bambino (affettivi, emotivi e fisiologici) è la base per lo sviluppo di una buona empatia. Un contributo facilitante che tuttavia non impedirà a chi non ha vissuto un buon attaccamento di sviluppare comunque una buona empatia.
Contributi teorici
I contributi più importanti su questo tema ci sono stati forniti da Heinz Kohut, egli ha parlato di empatia nel rapporto analista – paziente ma ha anche tracciato una linea evolutiva di questo meccanismo, ponendo nella prima infanzia l’empatia primaria nei confronti della madre, che si verifica quando un bambino, che ha ancora un organizzazione mentale arcaica, include nel proprio Sé i sentimenti e i bisogni della madre e arriva a maturare quando entriamo in contatto e connessione empatica con le persone attorno a noi (risonanza empatica e non più fusione con la madre). Secondo questo autore è impensabile che una persona possa arrivare ad una totale autonomia poiché viviamo in relazione con gli altri e l’empatia è essenziale per la vita interiore dell’uomo.
Lo psicologo Mark Davis ha individuato tre forme di empatia:
- empatia cognitiva – nella quale adottiamo solo la prospettiva dell’altro e quindi è un tipo di empatia limitata perché usiamo solo il nostro intelletto per comprendere;
- distress personale – in questo caso si provano i sentimenti dell’altro, se una persona soffre soffriamo anche noi. Questa tipologia può essere così pervasiva in alcune persone da sottoporle anche a notevole stress;
- preoccupazione empatica – questa forma implica la capacità di riconoscere gli stati emotivi degli altri, sentirsi emotivamente connessi, la persona si attiva nei confronti dell’altro verso il quale prova empatia. È in linea con la definizione di empatia esposta sopra.
Le prospettive più recenti hanno indagato l’influenza dei neuroni specchio nell’empatia, secondo Gallese si verifica un processo di simulazione incarnata. Questi tipi di neuroni sono quelli per i quali siamo in grado di ripetere un’azione che osserviamo, ad esempio quando vediamo una persona che sbadiglia sbadigliamo anche noi, un riflesso. Grazie a studi sull’attivazione di questi neuroni dapprima sulle scimmie e poi sull’uomo è stata identificata la loro funzione nello sviluppo dell’empatia, legata anche alla posizione in cui si collocano nell’encefalo.
Allenarsi all’empatia
È possibile allenare la propria empatia con alcune semplici mosse:
- sposta l’attenzione sull’altro
- lascia finire all’altro di parlare
- prova a lasciare da parte il giudizio
- ascolta l’altro con attenzione per comprendere e non solo per dare una risposta
- complimentati con gli altri
Tania Morelli
Nata a Trento nel 1990, dopo la laurea in Studi Internazionali ha scelto di modificare il proprio percorso e si è avvicinata alla psicologia. Durante un periodo in cui ha vissuto in Germania si è interessata all’integrazione degli italiani nel Paese, argomento della sua tesi di laurea con la quale si è laureata in Psicologia clinica presso l’Università degli Studi di Torino nel 2017. L’interesse per la giurisprudenza l’ha portata a concludere un Master in Psicologia Giuridica presso l’ITAT di Torino e dal 2019 collabora con il Tribunale di Trento come consulente psicologo. Tania è specializzanda in psicoterapia dinamica integrata presso il Centro Psicologia Dinamica di Padova.
Si è avvicinata al mondo delle dipendenze grazie al tirocinio post lauream ed attualmente lavora presso la Comunità Terapeutica la Casa di Giano.