Andrea, attraverso questo contributo, offre l’input dell’operatore come attivatore di processo e illustra il percorso per far si che si possa realizzare concretamente la frase della filosofia di “Progetto Uomo”:
“Essere parte di un tutto con il suo contributo da dare”.
Mi piace iniziare con una frase che influenza e ha influenzato negli anni il mio fare ma soprattutto “essere educatore”:
“Educare è partire con gli ultimi verso una nuova umanità per conservare cielo e terra”.
Ecco, questo è per me l’orizzonte di ispirazione e il punto al quale voglio far tendere il mio lavoro.
Essere educatori in Comunità nell’epoca dei legami deboli quale quotidianità vive l’educatore.
Stare in Comunità al fianco di persone con problemi di dipendenza, in un’epoca caratterizzata da legami deboli, non può e non deve considerarsi solo ed esclusivamente come fattore contenitivo e di mantenimento ma bensì come attivatore di processi di cambiamento.
Quali sono allora le situazioni che ci troviamo ad affrontare quotidianamente?
La precarietà della vita è una dimensione ormai consolidata che ci trova spesso impreparati nei confronti di quello stile educativo fatto di certezze teoriche e “fallimenti” pratici, dove quello che fa la differenza il più delle volte è la disponibilità e la capacità di stare nelle difficoltà, senza una risposta pronta.
L’educatore è colui che, ogni giorno, si mette in una relazione a due o di gruppo e svolge funzione di ascolto e accudimento, sostiene nella sua totalità o, meglio, in modo olistico, lo stare dell’ospite all’interno di una condizione protetta, per un tempo definito ma che non è certezza di cambiamento. Frustrazione, rabbia, ansia, tristezza, malinconia, spavalderia, conflitto, manipolazione, seduttività sono tutti fattori che si presentano all’interno di una relazione educativa. Sono, questi, gli aspetti con i quali dobbiamo confrontarci. Il cambiamento prevede una crisi e noi siamo come professionisti chiamati a attivare processi più che a dare soluzioni. Problematizzare e insinuare dubbi rispetto a comportamenti o una visione della vita che può essere distorta, malata.
L’educatore è colui che offre opportunità a chi ha il diritto di incontrarle come riconoscimento del diritto dell’altro di essere accompagnato, come riconoscimento del dovere di portare a galla il proprio protagonismo con le motivazioni e il senso del proprio esistere a partire dal proprio vissuto personale.
Per fare che cosa?
Il ruolo più importante dell’educatore è quello di fare in modo che la persona capisca prima di tutto di essere parte, nel nostro caso parte della comunità, in un secondo momento cominci a sentirsi parte e poi nel tempo cominci a fare parte completamente e attivarsi affinché il suo piccolo pezzettino cominci a far progredire la comunità. Tutto questo con un fine: diventare parte anche alla fine del percorso, nella migliore delle ipotesi inizio di una nuova vita piena di soddisfazioni e di sogni che non si fermano mai.
Nell’epoca attuale risulta necessario proporre, dunque, una relazione in cui il dubbio e l’interrogarsi sia quotidiano, dove il singolo è centrale e la sua storia non sia solo biografia ma diventi storiografia da inserirsi in una storia generale e con questa confrontarsi.
Andrea Rizzonelli
Dopo un inizio di studi come perito elettronico incontra nel suo percorso il volontariato con persone diversamente abili, da li nasce l’idea di iniziare l’avventura del diventare educatore e a metà degli anni ’90 consegue il diploma di educatore professionale. Per vent’anni svolge la sua attività con minori e adolescenti soprattutto nell’ambito della prevenzione e della promozione in un intervento di “educativa di strada”. Partecipa a diversi interventi di sviluppo di comunità presso quartieri “difficili” della città di Trento e dal maggio 2018 fa parte dell’equipe della comunità terapeutica “Casa di Giano” dove finalmente si può sperimentare nel lavoro con gli adulti, altro sogno nel cassetto che si realizza dopo quello del lavoro in strada.
Nel frattempo consegue anche la laurea in educatore professionale sanitario.
1 Commento. Nuovo commento
Ho letto con molta attenzione il tuo scritto nel quale poni l’accento sul bisogno di appartenenza a mio parere fondamentale perché una comunità terapeutica possa definirsi tale. Facile a dirsi difficile a farsi. Perché se l’obiettivo è che i nostri ragazzi sentano la comunità casa loro dovremmo interpellarli sempre quando decidiamo delle modifiche. Le regole andrebbero discusse e decise con loro e non solo calarle dall’ alto. Le regole il più delle volte servono più agli educatori che ai ragazzi perché ci facilitano il controllo ma rischia di instaurarsi il gioco perverso di guardie e ladri. Parlo per esperienza, è sempre perdente. Quanto siamo disposti a dare realmente fiducia ai nostri ragazzi? Quanti compiti facciamo noi che potrebbero essere affidati a loro? Ho imparato che se ad una persona che sente di non meritare fiducia gliela concedi difficilmente la tradisce.E’ il sospetto, il pregiudizio che porta la persona a trasgredire.
Le certezze teoriche ci evitano il coinvolgimento emotivo e lo stare nelle difficoltà. Le stesse frustrazioni che viviamo noi le vivono anche i nostri ragazzi. E forse dovremmo smettere di chiamarli ospiti perché l’ospite non è a casa sua e non sente il bisogno di curarla e farla curare ma solo di rispettare le abitudini del luogo.
Quando parli di olistica sono perfettamente daccordo. Noi spesso siamo bravissimi a curare mente e corpo ma dimentichiamo che anche i nostri ragazzi hanno un’anima. Se non fanno un percorso che comprenda il perdono non cambierà niente. Ci saranno quelli che continuano a punirsi e quelli che faranno sempre le vittime. Per concludere le riflessioni di un vecchio operatore ho la certezza che una carezza, un abbraccio, un gesto di affetto valgano molto di più che tante letture e aiutano a generare un sentimento di appartenenza. Grazie